lunedì 22 novembre 2010

LA RECENSIONE DI MATTEO DI GIULIO SU "LINSOLITO"

Nel Nord-Est dei miracoli non ci sono né serial killer, né commissari. C'è il peso della storia, e di questo ci parla Alessandro Bastasi nel suo secondo romanzo, La gabbia criminale, appena uscito per la milanese Eclissi, casa editrice avvezza al noir. Emerge la provincia, la provincia dei lavoratori che fuggono dal paese per studiare e che dopo la laurea fanno fortuna altrove per poi tornare all'ovile e guardarlo con quella curiosità tipica dei forestieri. È il percorso di un sessantacinquenne che ha vissuto l'infanzia a Treviso per poi girovagare, un percorso ciclico che culmina nel rientro alla casa paterna, una magione spettrale e inquietante.
Il mistero che aleggia è la morte di un fascista nel cinquantatré, uno strozzino inviso a tutti e che tutti avrebbero voluto eliminare: ma a pagare in carcere, fino alla morte, è stato un ex partigiano a cui l'assassinato avrebbe stuprato e ucciso la moglie in tempi di guerra. Un delitto d'altri tempi, una storia d'altri tempi. La gabbia criminale è infatti un nero paesano, uno spaccato di tradizioni e superstizioni, di paure e certezze, di rancori e amori da vicoli bui. Poco importa, alla fine, scoprire chi sia il vero colpevole - anche se va detto che a tre quarti un indizio svela l'identità forse prima del previsto - quando si ha l'opportunità di scoprire una realtà obliqua, una consuetudine lontana, una cartolina che delle cartoline ha più che altro la capacità di catturare l'insieme, e non la superficialità di facciata.
Bastasi scrive con prosa leggera, non eccede mai nel gusto della narrazione fine a se stessa e si tiene lontano da fronzoli e artifizi. Una prosa semplice, schietta, che ben si adatta al ritmo di una storia a tratti indolente ma sempre gentile, pacata, anche quando si trova ad affrontare il marcio - e capita più spesso di quanto ci si accorga sul momento - di una società letta in parallelo tra ieri e oggi, tra passato remoto e indicativo presente.La gabbia criminale è, a dispetto di una struttura forse quasi schematica, un ritrovare antichi sapori e dimenticati stupori. Al di là delle cornici e delle gabbie, appunto, dei generi e dei colpi di scena, si dimostra lettura piacevole perché slegata dagli schemi dei cliché.
Abbiamo chiesto ad Alessandro di parlarci della sua seconda fatica. 
Ci presenti La gabbia criminale?
La gabbia criminale è un noir. No, è un romanzo di denuncia sociale. No, è un romanzo psicologico. In realtà è tutto questo mescolato in un cocktail che mi auguro sia di gradimento a un pubblico vasto, non legato a uno specifico genere. È un noir in quanto a struttura e atmosfera: c’è un duplice omicidio commesso nel 1953, compaiono efferatezze di vario tipo, il tutto avvolto in un’atmosfera torbida in cui ciò che appare non coincide mai con quello che in realtà è. È un romanzo di denuncia sociale perché, almeno nella mia intenzione, mette in luce gli aspetti peculiari di una comunità di piccola provincia: l’essere un microcosmo chiuso con le sue regole, le sue ipocrisie e le sue paure, le bugie, il familismo amorale, il conformismo, la falsa solidarietà che si sfalda alla prima occasione. Ed è un romanzo psicologico perché in realtà tutta la prima parte si svolge in larga misura nella mente del protagonista, Alberto, l’io narrante: dove il tempo non esiste, il presente e il passato si confondono, una girandola di personaggi fa la sua comparsa, alcuni per il tempo di un respiro; dove anche la casa, quella in cui Alberto è tornato a vivere dopo tanti anni, che nella letteratura psicanalitica tipicamente rappresenta l’io, è un personaggio, con le sue ombre, i suoi odori, i suoi fantasmi.
Il tuo romanzo è un noir ma è anche - soprattutto - uno spaccato sulla provincia, quella meno conosciuta. Come ti sei trovato a muoverti in bilico tra genere, narrativa pure e riscoperta della tradizione?
Quella che chiami “riscoperta della tradizione” in realtà vorrebbe essere il tentativo di legare il contesto sociale attuale con quello di cinquant’anni fa, a testimoniare la persistenza di uno zoccolo duro culturale che, mutatis mutandis, ritroviamo nelle cronache di tutti i giorni, quello che sfocia nel rifiuto di “chi non si conforma alle consuetudini”, quello che nel libro ieri ha portato un innocente in carcere, oggi mette a morte un altro innocente bruciandolo vivo. Tutto questo è inserito in un romanzo di narrativa per il quale l’elemento noir mi è sembrato lo strumento più adatto (e più avvincente) per l’esigenza di testimonianza che mi stava a cuore. Perché isola delle situazioni al limite, e ne consente quindi una disamina quasi da laboratorio. Tecnica che ho utilizzato anche nel mio terzo romanzo, che sarà pubblicato il prossimo anno.
Nel romanzo non ci sono poliziotti: proprio ora che l'editoria sembra interessata agli eroi seriali ti sei mosso in direzione opposta. Pensi che possa essere una soluzione valida per superare un momento - secondo me - di forte impasse di un mercato dei generi sovraccarico di cliché?
Concordo con quest’ultima osservazione. Il mercato dei generi è effettivamente sovraccarico, i cliché si ripetono a iosa. Qualcuno dice che il noir è morto. In realtà è morto nella misura in cui lo si riduce a cliché, senza una vera innovazione sia nei temi che nello stile. Ben venga quindi la contaminazione tra generi, nella ricerca di stilemi nuovi e innovativi. E’ quello che nel mio piccolo sto tentando di fare, e che ritrovo peraltro in parecchi autori interessanti, da Massimo Cassani a Al Custerlina, per fare solo due nomi agli antipodi tra loro.

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