lunedì 21 febbraio 2011

La recensione di "Liberi di Scrivere"

La recensione la trovate qui
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Avete presente Peppone e Don Camillo, il sindaco comunista e il combattivo parroco di Brescello nella riduzione cinematografica, personaggi letterari creati dalla penna di Giovannino Guareschi, emblemi della Bassa Padana nell’ Italia rurale e provinciale del dopoguerra. L’Italia di Coppi e Bartali, per intenderci, altra coppia antagonista questa volta del ciclismo, quando sport, politica e società  era un tutt’uno e rispecchiavano il contrapporsi di due Italie quella comunista di ispirazione laica e quella democristiana cattolica e conservatrice. Se ci aspettiamo un idilliaco scontro culturale, fatto di stima e rispetto reciproco dobbiamo ricrederci, non fu affatto così. Alessandro Bastasi ci ricorda che democristiani e comunisti si odiavano davvero e non era vero quello che si vedeva al cinema nei film su Don Camillo e Peppone dove litigavano tanto ma poi in fondo erano solidali. Tanto che quando uscì il film un prete di Bologna di nome don Lorenzo Tedeschi si scagliò contro Guareschi scrivendo su un periodico: “L’irenismo di Don Camillo è un pernicioso equivoco… Una terribile realtà di abdicazione” e un vaticanista scrisse sulla Gazzetta del Popolo di Torino: “Gli ambienti vaticani contro l’ormai famoso romanzo di Guareschi”. Bastasi per delineare bene il clima scrive: “Alla Messa della domenica il parroco, invece che amore cristiano, predicava odio contro i comunisti scomunicati, immorali e senza Dio”. Ecco in questa Italia e per la precisione nel dicembre del 1953 ha inizio il noirla Gabbia criminale. In un borgo alla periferia di Treviso vengono rinvenuti cadavere due anziani, Saverio Dotto, ucciso con tre coltellate nella schiena e la moglie ancora in camicia da notte con una coltellata al cuore. Un delitto sanguinario che scuote il torpore di una città della Bassa in cui l’attività principale è tagliare i panni addosso, dire maldicenze, sparlare di vicini e conoscenti con morbosa cattiveria ma per vigliaccheria, quieto vivere o pigrizia veri delitti non se ne compiono. E’ una zona tranquilla, certo durante la guerra di fattacci ne sono accaduti, ma erano circostanze eccezionali, scusabili, altri tempi. Saverio Dotto proprietario di vigne e di immobili, un infame arricchito in tempo di guerra con la borsa nera, ex fascista della milizia, usuraio, capace di correre dietro ai bambini con il fucile se vedeva minacciata qualche sua proprietà, ne aveva di scheletri nell’armadio, di gente che lo odiava, come Caterina la matta che quando lo vedeva sussurrava piano: “stupratore e assassino”. Molti hanno una ragione per vederlo morto, forse tra tutti una ragione in più ce l’ ha Carlo Bettini, uno dei comunisti immorali e senza Dio, bersaglio dei preti come sopra accennato, che quando morì Stalin piansero e si misero al braccio la fascetta del lutto. Si mormora in paese che fu il Dotto a violentargli e  uccidergli la moglie nel 44 e tanto basta per servirgli da movente. Una vendetta insomma e così lo portano via, lo processano e lo condannano a vent’anni, poco importa se per il crepacuore non scontò interamente la pena morendo nel 1965, poco importa se era poco più che un capro espiatorio. Alberto Sartini, un bambino all’epoca dei fatti, dopo anni trascorsi a Brescia a fare il professore di filosofia, ormai in pensione torna nella vecchia casa dei genitori e inizia a interrogarsi su quegli antichi delitti. Fu davvero il Bettini l’assassino, o non fu altro che una scelta di comodo e il vero colpevole nascosto dall’omertà di un paese bigotto e rinchiuso nella gabbia criminale del titolo, l’ ha fatta franca e impunito ha vissuto per anni nel rispetto e nella considerazione della comunità? Sartini vuole sapere la verità e quello che scopre perché alla fine la verità la scopre, cambierà per sempre la sua vita e il suo futuro. La Gabbia criminale del noir più che del giallo classico ha molti elementi, ci sono le vittime che suscitano ben poca pietà, ci sono gli innocenti fatti passare per colpevoli, c’è chi cerca la verità ma alla fine avrebbe preferito non scoprirla, c’è un affresco sociale che rispecchia in maniera fedele il perbenismo bigotto di un’Italia di provincia che ancora vive nei piccoli borghi rurali dove tutti si conoscono, dove l’asfissiante maschera fatta di ipocrisia e falsità nasconde odi, rancori, vendette,  rivalità e tutto si fa in nome dell’apparenza, l’unica cosa da salvare in un mondo gretto e ottuso e schiavo di quel che dice la gente. Quest’ultima a mio avviso e la parte più riuscita del romanzo, capace da sola di tenere in piedi l’impalcatura su cui si regge. Se devo trovargli un limite forse la sovrapposizione dei piani temporali rende un po’ faticosa la lettura ma spinge semplicemente a fare più attenzione e ad evitare una lettura frettolosa. Bastasi scrive bene, è attento ai particolari ci sono elementi che da soli racchiudono un’atmosfera, basta citare la descrizione della cucina, una delle scene del delitto: “ il tavolo di legno con le quattro sedie, la credenza con il pane, il santino di papa Pio XII sul muro, la cucina economica con il fuoco acceso, l’acqua che bolle nella grossa pentola, la boule sul tavolo pronta per essere riempita” basta questo per descrivere l’interno di una semplice casa contadina, se ne sente la familiarità, l’intimità e si respira più agghiacciante per contrasto l’aura mefitica del delitto che si è appena commesso.

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